L’emergenza causata dall’epidemia Covid-19 ha colpito in modo molto severo le imprese italiane e ha innescato una delle più pesanti crisi economiche dal dopoguerra in poi.
Il lockdown della primavera 2020 e il successivo protrarsi degli effetti della pandemia (tuttora in pieno corso) hanno generato impatti significativi sui bilanci delle società, aumentando soprattutto il rischio di credito e il fabbisogno di liquidità.
Sono diversi gli studi che negli ultimi mesi hanno analizzato gli effetti economici della pandemia sul sistema produttivo del nostro Paese.
Il presente articolo ha lo scopo di approfondire l’argomento presentando i risultati delle seguenti ricerche svolte sulle imprese italiane durante l’emergenza Covid-19:
La nota della Banca d’Italia del 13 novembre 2020 analizza in modo approfondito gli impatti economici della crisi Covid-19 in relazione anche alle misure di sostegno adottate dal Governo tra i mesi di marzo e agosto 2020.
Secondo i risultati della ricerca, gli interventi previsti dai Decreti Cura Italia, Liquidità, Rilancio e Agosto hanno contribuito molto ad aiutare le società di capitali italiane a contenere gli effetti della recessione economica in termini di fabbisogno di liquidità e deficit patrimoniale.
Tuttavia, viene sottolineato come le misure introdotte siano probabilmente andate a beneficio anche di imprese che si sarebbero trovate in difficoltà indipendentemente dal sorgere della pandemia.
Le stime indicano inoltre che risulta peggiorato il merito di credito delle imprese: la probabilità di insolvenza è infatti aumentata a causa del maggiore indebitamento a cui hanno fatto ricorso le aziende per fronteggiare la crisi.
Per maggiore chiarezza, si riassumono di seguito i principali risultati dello studio, che è stato condotto su un campione formato da circa 730.000 società di capitali italiane, altamente rappresentativo delle imprese attive nel nostro Paese. Per ogni dimensione analizzata (fabbisogno di liquidità, patrimonializzazione) vengono confrontati gli effetti che si sarebbero avuti senza gli interventi del Governo con quelli invece registrati a seguito dell’adozione dei Decreti sopra citati.
Considerando anche le linee di credito ottenute con il Fondo Centrale di Garanzia o tramite la Sace, il fabbisogno di liquidità si ridurrebbe ulteriormente arrivando a circa 28 miliardi per 45.000 imprese.
Si specifica infine che sarebbero soprattutto le micro imprese ad avere un fabbisogno di liquidità anche a seguito degli interventi di sostegno e degli schemi di garanzia pubblica per l’accesso al credito.
Lo studio misura inoltre l’impatto della crisi in termini di redditività e rischiosità delle imprese.
La pandemia ha determinato un forte calo della redditività, con una diminuzione del fatturato ampia ma maggiore per alcuni settori (ad esempio alloggio e ristorazione, intrattenimento) rispetto ad altri.
Prendendo come riferimento l’anno 2018, il Margine Operativo Lordo (MOL) si ridurrebbe del 25% e la flessione della redditività netta, misurata dal Return on Equity (ROE), sarebbe quasi del 5%.
Si riscontrano effetti anche in termini di indebitamento, con l’incremento della leva finanziaria (rapporto tra debiti finanziari e la loro somma con il patrimonio netto) tra 1 e 2 punti percentuali, intorno al 44-45%.
Peggiora anche la capacità delle imprese di sostenere il servizio del debito, con una maggiore incidenza degli Oneri finanziari sul Margine Operativo Lordo.
La ricerca stima infine gli impatti del Covid-19 sul merito creditizio prendendo a riferimento un campione di 270.000 aziende (rappresentative di oltre il 70% del fatturato delle società di capitali).
Le stime effettuate sull’evoluzione delle principali voci di bilancio hanno permesso di calcolare quale sarà, a fine 2020, la Probabilità di Default (PD) a 12 mesi. In particolare, i risultati indicano che la PD passerebbe dal 2,4 al 3% nel caso di accesso al credito con garanzie pubbliche, e dal 3,5 al 4,4% nell’ipotesi di ricorso al credito incondizionato (cioè supponendo che le imprese abbiano una capacità di indebitamento illimitata e non condizionata dalle caratteristiche aziendali).
In entrambi i casi, comunque, la PD stimata si attesterebbe su livelli inferiori al massimo raggiunto nel 2015 a seguito della crisi del debito sovrano (durante la quale era giunta al 5,4%).
Gli effetti della pandemia in termini di rischiosità risultano ancor più evidenti se si considera l’aumento della quota di aziende collocate nella fascia di rischio peggiore (ovvero con PD > 5%) secondo la scala dei rating armonizzati per l’Eurosistema. Si passerebbe infatti dal 10% al 12,2%, ovvero 32.000 imprese inserite nella fascia più rischiosa.
Uno studio condotto da Cerved Rating Agency, successivo a quello di Banca d’Italia, ha analizzato le conseguenze dell’attuale crisi economica sui tassi di insolvenza e sulla classificazione delle imprese italiane in base al loro merito creditizio.
I dati elaborati dall’agenzia, che raccoglie e aggiorna costantemente informazioni sul merito di credito delle aziende, mostrano che il tasso di default salirà dal 4,5% pre-Covid al 9,9% di settembre 2021 ipotizzando uno scenario medio, cioè con nuovi lockdown limitati a specifiche zone rosse e non totali come quello della primavera 2020.
Con un tasso più che raddoppiato si profila dunque una situazione preoccupante, pur tenendo conto degli interventi statali come le moratorie sui finanziamenti. Come nota positiva, però, Cerved sottolinea il fatto che queste stime non considerano le risorse che potrebbero arrivare alle imprese grazie al Recovery Fund europeo.
Un altro dato di allerta importante è il sostanziale peggioramento dei rating delle PMI. I declassamenti sono stati infatti il 51% di tutte le azioni effettuate sui rating nel mese di aprile 2020 (contro il 3% soltanto di promozioni) e le percentuali dei mesi successivi si sono mantenute attorno al 40%.
Lo studio Cerved suggerisce comunque alcuni potenziali strumenti di aiuto per la ripresa: tra questi, vengono indicati i minibond per le imprese aventi rating ancora affidabili e con un fatturato tra i 5 e i 500 milioni di euro.
Nel dettaglio Cerved osserva che in questo periodo i green bond, ovvero le obbligazioni verdi la cui emissione è legata a progetti con impatto positivo per l’ambiente, sono di particolare prospettiva anche alla luce della transizione green che coinvolgerà il sistema imprenditoriale italiano all’arrivo delle risorse del Recovery Fund.
Uno studio di Confindustria di inizio 2021 evidenzia che, a causa delle difficoltà dovute alla pandemia, si riscontra un eccessivo peso del debito per le imprese italiane che potrebbe mettere a rischio gli investimenti produttivi futuri.
Nel 2020, infatti, l’emergenza sanitaria ha aumentato il ricorso al credito bancario da parte delle aziende (+7,4% annuo a ottobre), anche sulla spinta dei prestiti garantiti dallo Stato. Questo è senza dubbio servito ad arginare la crisi di liquidità, generata dalla forte contrazione dei ricavi dovuta al lockdown e alle altre misure di contenimento.
D’altra parte, però, l’effetto riscontrato in molti settori sia dell’industria che dei servizi è stato quello di un indebolimento della situazione finanziaria per l’eccessiva crescita del debito, il cui peso è stato misurato in anni di cash flow generato dalle imprese.
La ricerca dimostra infatti che, se alle imprese del settore manifatturiero nel 2019 bastavano 2,2 anni di risorse generate per ripagare completamente il loro debito, nel 2021 serviranno ben 5,4 anni di cash flow. Nel settore dei servizi si passa invece da meno di 2 anni nel periodo pre-Covid a quasi 4 anni nel 2021.
Alla luce di questi dati, Confindustria segnala la necessità di nuovi interventi di policy per sostenere le imprese e riequilibrare la loro struttura finanziaria attraverso una più ampia diversificazione delle fonti e una maggiore patrimonializzazione.
Il primo punto da considerare è l’allungamento della durata del debito, per dare sollievo finanziario alle imprese colpite da una crisi senza precedenti. Occorre inoltre agevolare il ricorso di PMI e Midcap a forme di finanziamento alternative alle banche, puntando in particolare dal 2021 sui diversi mercati del capitale proprio (private equity, venture capital, azionario AIM, eccetera).
L’ultimo studio che approfondiremo è stato realizzato dalla società fintech modefinance, specializzata nello sviluppo di soluzioni per la valutazione e gestione del rischio di credito.
L’analisi, basata su un campione di 85.000 PMI italiane, conferma gli esiti delle altre ricerche precedentemente illustrate nell’articolo in quanto anch’essa dimostra che la pandemia ha determinato un forte peggioramento dei rating delle aziende.
Secondo modefinance, oltre la metà delle PMI italiane rischia un declassamento di uno/due gradini della scala di rating proprio nel momento in cui si stava assistendo ad un forte miglioramento delle performance economico-finanziarie delle imprese dopo la crisi del 2015.
Lo studio indica infatti che il rating mediano passerebbe dal “Bb” del 2019 al “Ccc” del 2020, portando quasi il 55% delle aziende a far parte della categoria “junk” ovvero ad elevato rischio di default.
Appena l’1,36% delle PMI del campione vedrebbe invece migliorare la propria valutazione, mentre il 15% confermerebbe il proprio rating: si tratta probabilmente delle imprese appartenenti ai settori che hanno subito impatti più contenuti a seguito della crisi Covid-19.
Viene sottolineato che la ripresa potrebbe iniziare già nel 2021, ma sarà di fondamentale importanza per sfruttare bene i fondi europei del Recovery Plan: in particolare, le imprese che investiranno in sostenibilità e digitalizzazione saranno quelle che attireranno i maggiori finanziamenti sul mercato e che potranno tornare a crescere e ad evolversi dopo la pandemia.
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